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Capitolo 1


1.     Il Filosofo e le esortazioni: le prediche del Dàimon positivo

Credo, raggiunto un livello di maturazione psichica che si staglia solo all’alba della mia vita di studente,  di avere due tipi di pensieri[1], e la summa divisio cade sulla distinzione tra positivi e negativi. La genesi dei primi pensieri, quelli positivi, risiede in sentimenti di entusiasmo e di auspicio, nella consapevolezza che l’uomo sia un essere altruista e tendenzialmente portato verso l’amore: trattasi di pensieri canalizzanti quella filantropia etica volta all’agire a favore dell’altro; pensieri che sorgono dall’imperativo kantiano di considerare l’altro sempre come fine e mai semplicemente come mezzo.
Mentre si può ben capire come i pensieri negativi sorgono da sentimenti di delusione, lucida consapevolezza e pessimismo, nella convinzione che l’uomo sia un essere egoista e tendenzialmente portato verso l’odio, ove ombre di nichilismo volteggiano nella mia mente senza poter passar inosservate.
Non è difficile leggere fra le righe di questo mio inizio la teoria dell’antropologia positiva e di quella negativa[2], che vedrebbero rispettivamente l’uomo che cerca l’amico per il puro interesse di socializzazione, e l’uomo che cerca l’amico al solo fine di difendersi dal nemico (homo homini lupus), quindi le teorie del bene e del male politico, secondo cui la società si costituisce per filantropia ed interessi culturali per l’una teoria (polis-polos), ovvero per difendersi meglio dagli attacchi dei nemici per l’altra (polis-polemos).
Vi sono alcuni pensieri (i primi) che appaiono quindi come esser stati suggeriti da uno spirito benigno, come se una lente benigna si interponesse fra la mia percezione ed il fenomenico umano, ed altri invece (i secondi) da uno spirito maligno, e questi due Dàimones (se vogliamo esprimerci in termini socratici) hanno un punto fermo: l’obiettiva meritorietà della Conoscenza. La discrasia verte invece su come utilizzare questo bene, poiché di volta in volta si ha a che fare nel suo corretto disimpegno con la maggiore o minore elasticità mentale di chi si ha di fronte, pur dovendo riconoscere a questi delle caratteristiche imprescindibili quali l’autocoscienza e la capacità di pensare, da collocare nella gerarchia ontologica.
La teorie del bene e del male politico, o quella dell’antropologia positiva e negativa, trovano in questo libello una nuova ottica ed una nuova applicazione, per il tramite di quel volano che non può che essere il confronto, quindi il contraddittorio: solo da questo scontro potrà venir fuori la più giusta soluzione (i.e.: la più giusta teoria).

PENSIERO N°0
"La migliore comune scelta è quella che - maturata la debita immancabile Conoscenza - germoglia dal confronto, che sorge dal concerto delle diverse opinioni, dall'incontro delle distinte esigenze e dalla pluralità d'interessi: non puòsi deliberar laddove non sussiste quell'indispensabile reciproca empatia nel comprender (ancorché non condividere) le più che lecite sensibilità e ragioni di tutti."

Mentre il Dàimon positivo riconosce l’esistenza di altri io-pensanti, sulla scia degli insegnamenti fichtiani, altri esseri capaci di ragionamento da rispettare come sé stesso; il Dàimon negativo non può che ravvisare in questa moltitudine di io-pensanti una disparità ontologica[3] limitatamente alle facoltà intellettuali, che dipenda o meno dalle conoscenze acquisite o dalla innata o maturata elasticità mentale.
Ci si domanda allora come debbano convivere i due non proprio adesivi orientamenti, ma la risposta risiede nel fatto che entrambi si completano e non possono esistere l’uno senza l’altro: è indispensabile che i due Dàimon predichino antiteticamente in posizione di tesi l’uno e di antitesi l’altro, per coniare quella nuova e genuina sintesi che è il Filosofo.
Questo contradditorio genera quella soluzione che nel mio pensiero è mutuata grandemente dalla missione del dotto fichtiana, ove per “dotto in missione” io intendo senz’altro il Filosofo. Il Filosofo si limita ad eseguire la sintesi del contraddittorio fra i due Dàimones, con la continua ricerca del miglioramento obiettivo della vita.
Ecco giustificati, fatta eccezione per il “numero zero”, il primo ed il secondo pensiero che inaugurano questo libretto:

PENSIERO N°1
"Mi piace pensare che il Filosofo sia colui il quale ama ogni Scienza, è inscindibilmente attratto da ogni sapere, ha la sincera intenzione di conoscere e comunicare la Conoscenza: mi piace utilizzare il termine filosofia nella sua accezione principale, secondo la sua etimologia originaria."

PENSIERO N°2
"In quel ricco e fulgente emporio sì a congeniale guisa forgiato ed all'uopo congegnato della Filosofia, si riforniscono eternamente all'occasione, lasciandosi piacevolmente influenzare, le arti, la poesia, l'etica, la teologia, l'antropologia, la sociologia, l'economia, il diritto, la psicologia, la deontologia, e moltissimo altro... finanche la medicina!
Nulla ivi rimane inutilizzato, nulla messo da parte: nella ideazione fondazionale delle genesi euristiche delle somme scienze e nel retroterra delle accademiche arti nulla è giammai lasciato al caso."

Il Filosofo quindi non è altro che il frutto di quella dialettica scaturita dal contenuto concettuale di una tesi e da quello di una antitesi, che in quella articolazione triadica hegeliana trova la sola fonte di suffragio teorico.
Questi disimpegna la sua missione per il tramite di strumenti per comunicare agli altri io-pensanti ciò che è di abbisognevole per equalizzare le loro inevitabili disparità ontologiche. Ciò che è abbisognevole non è la Conoscenza tout-court, o la Conoscenza con la “c” maiuscola (che è la stessa cosa): essa non appartiene all’uomo. L’uomo può solo aspirarne un parziale possesso (rectius: una completa adesione), un amore: ecco perché filo-sofia[4]. Ciò che è abbisognevole non è altro che l’amore per la Sapienza.

PENSIERO N°3
"Il sapiente, o dotto, non esiste. Può esistere invece l'aspirante alla Sapienza, l'amante di essa: il filosofo.
Il filosofo è chi dedica la sua vita allo studio delle Scienze.
La Sapienza non è di questo mondo. Può esistere invece l'aspirazione alla conoscenza, l'amore di essa: la filosofia.
La Scienza è ciò che adduce un miglioramento obbiettivo della vita degli uomini.
La filosofia è quindi euristica pura finalizzata a siffatto miglioramento, ricerca, studio, sviluppo, Scienza in continuo divenire.
La missione dell'uomo è divenire filosofo; la missione del filosofo è comunicare la filosofia a tutti gli uomini, cioè mettere in comunione l'amore per la Conoscenza per il tramite dell'arti: musica, poesia, retorica, etc."

Aristotele con una lucidità che precede ogni tempo, nella sua “Esortazione alla Filosofia” o “Protreptico” afferma che chi pensa sia necessario filosofare deve filosofare e chi pensa non si debba filosofare deve filosofare per dimostrare che non si deve filosofare; dunque si deve filosofare in ogni caso o andarsene di qui, dando l'addio alla vita, poiché tutte le altre cose sembrano essere solo chiacchiere e vaniloqui, aggiungendo in altra sede che “Il saggio non è chi dice tutto ciò che pensa, ma che pensa tutto ciò che dice”.
La missione del filosofo, che non si limita all’attività del filosofare, ma che si estende alla comunicazione della filosofia, è un dinamico ed interminato Streben, e lo Streben era l'anelito vitale che pervadeva gli esponenti del Romanticismo, e nella filosofia nell’Idealismo: tensione verso l'alto, verso il sublime, verso l'emozione, verso la verità se vogliamo, aspirazione, desiderio, ricerca, sforzo.
La missione del Filosofo è uno sforzo finalizzato alla comunicazione dell’amore per la conoscenza dinamica, una affectio che sia straordinariamente coinvolgente.

PENSIERO N°4
“La comunicazione dell’interdisciplinarietà creativa, in luogo di dono proficuamente trascinante, risiede nella deontica umana, quindi insegnare non può non esser che imperativo ipotetico[5] della vita stessa: una vita che non sia profusa per gli altri, inosservante di siffatto onere, non è un’esistenza ben spesa.”

Lo Streben è il tendere all'ideale; è uno dei valori fondamentali per l'uomo romantico (che è come dire il filosofo idealista) che vuole staccarsi dalla vita quotidiana per diventare più poetico, più eroico. Non vuole tendere a ciò che può realizzare ma vuole tendere a ciò che non può realizzare, all'utopia, alla perfezione. Questo in tutti i campi della vita soprattutto nell'arte e nella morale.

PENSIERO N°5
"L'inventore è prima di tutto un utopista: mai smettere di pensare ad idee e concetti inesistenti, mai smettere di studiare ed arricchire le proprie conoscenze, mai smettere di elaborare e corroborare il proprio pensiero."

PENSIERO N°6
"Il traguardo etico vedrai farsi sempre più nitido allorquando a prefetto aspirerai disimpegno della Conoscenza presso l'umanità, a nuncio delle arti presso le genti, ad ambasciatore dell'armonìa presso gli uomini, a procuratore della Scienza presso la società, a consigliere dell'eunomìa presso i governi, a paraclito della Verità presso la razionale e logica umana Giustizia."

 L’uomo non possiede la Scienza, ma possiede l’Arte: di quest’ultima fa uso per adempiere alla sua missione. Leonardo Da Vinci affermò che la Scienza e l’Arte non sono dissimili, in quanto entrambe hanno la capacità di penetrare la realtà. La Scienza può essere coltivata, ricercata e comunicata per il tramite delle arti, in quanto queste più di qualsivoglia altro strumento trasmettono il messaggio nel modo più sublime.

PENSIERO N°7
"E' con l'ausilio della retorica che il Filosofo fa di sé anche curatore delle altrui personalità, irrorando in quelle naturali esigenze di qualificazione connotativa e carismatica degli individui embrioni di Scienza, affinché così non ne siano ivi surrogati quei comuni e tutt'altro che aulici spontanei espedienti, conducenti questi ad adornare indelebilmente il corpo piuttosto che le menti."

Il disimpegno della retorica è meritorio se finalizzato al persuadere dell’amore per la conoscenza; la persuasione è un’arte, e per il tramite della sola arte il filosofo può comunicare la Scienza (rectius: l’amore di essa). Aristotele, infatti, usava dire che la persuasione è “l’arte di indurre le persone a compiere azioni che normalmente non compirebbero se non lo chiedessimo loro”. Ebbene è sociologicamente dimostrato che gli individui ancora non psico-fisicamente maturi se potessero, non andrebbero neanche a scuola, la stessa scuola che con meritorietà e lucidità è stata posta come obbligatoria (fino ad una certa età) nella maggior parte degli ordinamenti giuridici moderni.

PENSIERO N°8
“L’uomo non è conoscitore delle scienze, né può mai diventarlo: ne può essere intuitore, amante, appassionato, spettatore, quindi filosofo. L’uomo è in verità un artista: l’arte è ciò che gli riesce meglio, e nessuno in luogo alcuno potrà giammai negarlo.”

Il Filosofo mette al servizio dell’umanità l’Arte affinché venga comunicata la conoscenza (rectius: l’amore per la Conoscenza, quindi la filosofia). Ma la conoscenza non è qualcosa di cristallizzato, ma in continuo divenire: è soggetta a quelle continue ed indispensabili modificazioni che sono cagionate dal progresso scientifico e dall’evoluzione tecnologica, ad onta di quanto si potesse enunciare nel Medioevo, ma in ossequio al generale orientamento rinascimentale ed illuministico.

PENSIERO N°9
“La Conoscenza non è stasi, non è qualcosa di quantificabile o misurabile, e deve non esserlo: la sterile finitudine è null’altro che nocumento; fintantoché può fregiarsi invece questa della più onorevole dinamica di ricerca e sviluppo può ricevere il plauso dell’eternità, potendone gli uomini farne il miglior uso.”

Gli stessi strumenti per la comunicazione dell’amore per la conoscenza (che è un bene meritorio), possono però esser utilizzati a fini opposti, per comunicare tutt’altro. Ciò accade in presenza dei sofismi, in quell’agitato oceano del combattimento dialettico che è l’eristica. Il saggista Franco Volpi per esempio non esita a considerare la dialettica come “organo” della naturale cattiveria umana.
Arthur Schopenhauer esordisce nel suo trattatello circa l’arte dell’ottenere ragione esposto in trentotto stratagemmi (che egli chiamò dialectica eristica) affermando che “la dialettica eristica è l’arte di disputare, e precisamente l’arte di disputare in modo da ottenere ragione, dunque con mezzi leciti ed illeciti”,[6] proseguendo con un’altra affermazione, in vero molto più aspra (che meglio troverebbe sede nel secondo capitolo di questo panphlet) secondo cui il ricorso ai mezzi illeciti è cagionato dalla naturale cattiveria dell’uomo.

PENSIERO N°10
"La vita è con certezza un coacervo di retorica: avrà la meglio chi, sapendone proficuamente far buon uso, ivi si saprà utilmente destreggiare."

PENSIERO N°11
"In tanto è meritorio il disimpegno della retorica in quanto combatte, nell’assolvimento della sua missione comunicativa dell’amore per la conoscenza, i sofismi suggestivi nella temperie dell’eristica."

Il filosofo è retore nel momento in cui utilizza l’arte per comunicare l’amore per la conoscenza: il ricorso all’arte deve operare nel modo migliore, ed il convincimento del prossimo all’adesione alla filosofia deve avvenire nel modo più sublime e soave possibile, quindi essere il messaggio più appetibile a qualsivoglia orecchio. Mentre in questa sedes materiӕ ci si occupa della Retorica, con riferimento alla Musica si rimanda al Capitolo 7°.

PENSIERO N° 12
"Il retore non potrà prescinder dall'adornare la sua coinvolgente orazione, finanche negli epilemmi, di musicalità, di metrica, di pause, di respiri, nonché di teatrale gestualità, di un alito poetico, sì da non poterla discernere dalla lirica più prosaica, nel suo iter della più capillare e penetrante delle intellegibilità."

E’ nella natura dell’uomo far uso della musica e della poesia, e questo lo ha ben capito l’appassionato di storia patria Filippo Pulvirenti, che nel suo libello “Dafni, un mito siculo ellenizzato” esordisce con un passo di Aristotele enunciante circa la tendenza dell’uomo all’imitare la musica ed il ritmo, e la progressione di questa imitazione, per chi ne avesse le migliori predisposizioni, fino all’attività poetica.[7]
L’uomo quindi è tendenzialmente portato a far uso della retorica (con le sue connotazioni ritmiche, poetiche o musicali), verosimilmente per raggiungere scopi egoistici prima ancora che altruistici. Lo sforzo o streben del filosofo consta del canalizzare questa sua capacità nel fine del coinvolgimento filosofico.

PENSIERO N°13
"La retorica è quell'arte per il tramite della quale ci è dato comprendere che l'uomo è manipolabile come l'argilla, ma a differenza dell'ipnosi, il tutto avviene alla luce del sole e nel modo più chiaro e trasparente.
La missione del Filosofo è d'utilizzarla per fini meritori: l'innesto negli intelletti degli uomini dell'amore per la Conoscenza, per lo studio, per la ricerca, per il progresso, per l'evoluzione del pensiero, per lo sviluppo delle idee, per la creazione d'invenzioni, per provocare in tutti un obiettivo miglioramento delle condizioni di vita"

E come il Filosofo deve invogliare la filosofia nel prossimo, ciascuno (anche chi è passivo o destinatario del disimpegno della missione) deve farsi Filosofo dell’altro, ottemperando ad imperativi personali dall’altissimo valore etico. E’ indispensabile aderire completamente alla conoscenza (o alla filosofia che qui dir si voglia), per farsi Filosofo del prossimo. La missione per essere perfetta non può prescindere da una propria propensione verso la ricerca: cioè il filosofare.
Non puòsi prescindere dallo studio personale, e questo deve sempre precedere la comunicazione: studiare, ricercare ed imparare per poi insegnare ed educare. Ma insegnare ed educare non solo una conoscenza (in senso parziale, cioè con la “c” minuscola), ma anche il saper ricercare, il saper imparare, il saper studiare, il saper filosofare.

PENSIERO N°14
"Ecco qual'è il percorso per la più cogente adesione al fecondo scibile: studiare a tal punto da saper astrarre ogni principio generale dalle migliori invenzioni a riapplicarlo a qualsiasi altra creazione a piacimento, sì consacrandosi alla più creativa e coinvolgente delle interdisciplinarietà."

Il principio della interdisciplinarietà come un leit-motiv, ridonda ciclicamente nel filosofare: ciò consiste nel mutuare il meglio da ogni disciplina per forgiarne di nuove, o mutuare la più utile parte d’ogni disciplina per coniarne di migliori.

PENSIERO N°15[8]
"Solo conoscendo sapremo davvero scegliere ed essere sì liberi di manifestare la nostra più equa e ponderata preferenza; ma fintantoché non ci saremmo messi in siffatta logica essenziale ciascuna nostra azione può palesarsi esclusivamente a guisa di mero ed aleatorio esperimento forse intuibile ma incerto.
Vuoi dunque davvero che la tua esistenza sia affidata alla sorte?"

PENSIERO N°16[9]
"Arricchisciti di razionale, nuova, fulgente ed intellegibile consapevolezza elevando te ed i tuoi non solo ontologici pari[10] nella cura della logica, discernendo ragione da allegoria, fugando le metafisiche ermeneusi di quei mistificatori e promotori di desistenza dall'approccio scientifico alla scansione fenomenologica ed analitica della realtà sensibile."

Chi sono i promotori di desistenza?
Sono coloro che sconsigliano di affidarsi alla Scienza, ed al contrario di affidarsi alla metafisica, all’esoterismo, alle credenze popolari, al sapere medio accettato dalla popolazione anche seppur scientificamente errato, alla superstizione, ad una sterile conformità.
Questi strani figuri sono coloro che lo psicologo James Borg chiama “Gli affossatori”: coloro che sconsigliano le meritorietà, con l’aggiunta di commenti sconfortanti, apodittici e connotati da acrimonia.
"Il Conformismo è il carceriere della libertà ed il nemico della crescita” disse John Fitzgerald Kennedy (forse richiamando quanto disse Alber Einstein in “The World as i see it”, nel 1930)[11]. Dino Basili affermò che “Vale sempre la pena chiedersi se l’anticonformista non sia, semplicemente, uno che ascolta la sua coscienza”[12]. Che mondo sarebbe senza il libero pensiero o senza quegli utopisti, conosciuti meglio col nome di inventori?
Ecco perché “i giovani soffrono meno per i propri errori che per la prudenza dei vecchi[13]. Oscar Wilde con sagacia ed intuito dedusse sulla medesima frequenza d’onda che “l’uomo più esperiente del mondo non sarebbe stato altro che quello che avesse sbagliato di più”.

PENSIERO N°17
“Solo ponendosi in atteggiamento d’attento, rispettoso e sincero ascolto, ci verrà donata l’onorevole ed incorruttibile opportunità di carpire quanto di genuino e proficuo l’universo nelle sue multiformi espressioni ha da offrire in tutti i suoi aspetti, sì dissipando l’eterogenea, corrosiva ed obnubilante trama di postulati ancestrali che i pavidi tessono carenti di un qualche fermo suffragio alcuno.”

Questo pensiero si ispira molto al passo del Vangelo (Matteo 5,3-12) con riferimento alle Beatitudini: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli […]”. In accordo con la teoria dell’agire comunicativo di Habermas, e sull’insegnamento di Amato, i poveri di spirito non sono i cretini di cui parla Piergiorgio Odifreddi, ma coloro i quali hanno l’umiltà di ascoltare quanto il prossimo ha da dire, da affermare, da eccepire, da esplicare, da illustrare, senza imporre (con ricchezza di spirito) la propria posizione sugli altri (con la esiziale soggezione suggestiva): il poveri di spirito sono coloro che hanno l’umiltà di arrestarsi prima di sentenziare e verificare se possa esserci qualcuno che per i motivi più vari possa esser dotato di una qualche superiore esperienza, o corroborata conoscenza.
I poveri di spirito sono coloro che antepongono l’altrui parola alla propria, dimostrando interesse nelle argomentazioni altrui, ascoltando con concentrazione ed attenzione.
Per esistere dialogo non può quindi mancare né l’empatia degli interlocutori, né la sincerità, quindi la reciproca fiducia e la disponibilità all’ascolto: come afferma James Borg, sintetizzando in una sua importante citazione: “Il cattivo ascolto è un peccato capitale di cui si rendono colpevoli in molti […]. La verità è che la maggior parte di noi preferisce parlare anziché ascoltare (e, purtroppo, agisce di conseguenza).”  Lo psicologo Carl Rogers, esperto di comunicazione, riassume così l’importanza dell’ascolto: “L’incapacità umana di comunicare deriva dall’incapacità di ascoltare e di comprendere efficacemente l’interlocutore”.

PENSIERO N°18
“Abbi la lucidità di fugare l’umana parzialità trascendendo siffatte ed altre ostative contingenze, perseguendo con merito quell’alterità quale terzietà nella continua indagine dell’obiettivo, del vero, e dell’indefettibile: abbi poi, ancor prima di repellere anzitempo ciecamente e ponderando equamente astrazione e concretizzazione, l’umiltà di far proprie le ragioni di chi ti è accanto provandole sulla tua pelle.”

PENSIERO N°19
"Consacra la tua vita al filantropico scibile, alla coltivazione delle idee ed alla cura del pensiero; apporta il tuo più sano contributo agli uomini; non temere di sacrificare il tempo e la materia se corrobori lo spirito: l'eternità ti ricompenserà; va ora, e fa proficui proseliti dell'euristica dell'eunomìa."

PENSIERO N°20
"Esaspera ogni volontà ed ogni tuo vigore nella concreta indagine della verità, nel pedante esperimento delle scienze, nella produzione teleologica d'idee risolutive inconfutabili ai deterrenti incombenti dell'esistenza. Aderisci a siffatta guisa al dinamico pervenire delle risultanze perfettibili della Sapienza."

PENSIERO N°21
"Poni come naturale sbocco del tuo procedere etico, all'intravisabile orizzonte percepibile della morale di vita, il perseguimento dell'irrefutabilità e dell'infallibilità intellettuale indiscriminatamente comunicabile."

PENSIERO N°22
"Esclusivamente perseguendo il perfettibile contenimento dell'oltremodo esiziale obnubilabilità degli animi provocandone la tendenziale caducazione, si potrà in vero auspicar un plausibile dispiegamento fenomenico della completa condivisione della pura Conoscenza, della libera espressione delle probe e meritorie idee, e dell'evoluzione intellettuale dell'agire comunicativo; ma è pur vero che sol ponendosi in siffatto ordine d'idee se ne potrà ravvisare nel mondo una seppur parziale ma concreta e ragguardevole delibazione."

PENSIERO N°23
“Ciò che di divino risiede nel seno dell’umanità s’innalza ad epifania solo come concretarsi di ragguardevole desiderio di dialettico ed abbisognevole soddisfacimento interminato di sapere.”

PENSIERO N°24
"La discrasia fra l'obbiettivo Reale e la Verità - parziale e relativa - subbiettiva è tanto minore quanto maggiore è il bagaglio culturale dell'osservatore, che all'orizzonte dell'irraggiungibile Conoscenza non può che stagliarsi con gli occhi di un infinito Ermeneuta. L'uomo di tutto ciò dovrebbe, ma non se ne cruccia seriamente, poiché s'accontenta di postulare che il percepibile tenda all'irrefutabile, e quella discrasia a nulla."

PENSIERO N°25
"La missione dell'Ermeneuta consta, più che nel lumeggiare quel margine - non poco quantificabile - dell'altrui discrasia sofferta tra l'obbiettivo ed il subbiettivo, nel persuadere la maior pars che il loro della verità è solo riconducibile a combinato disposto fra oltremodo oziose, relative, parziali ed oltretutto ignave convenzioni."

PENSIERO N°26
"Quando avverrà l'estinzione dell'umanità? Quando non verrà più coltivata la Conoscenza".

Questo precedente aforisma lo si combina col Pensiero N°5 se si prendesse in considerazione le illuminate parole del fisico e filosofo tedesco[14] Albert Einstein: “Un uomo è vecchio solo quando i rimpianti, in lui, superano i sogni”.

PENSIERO N°27
"E rimembrerai sempre che anche l'innesto del più fecondo ramo comunque presuppone una profonda ferita nel verde tronco, ed in tanto v'è stato il previo sacrificio, in quanto verrà generato il venerando frutto: tanto più aspro l'uno, quanto più pregevole l'altro."

PENSIERO N°28
"Prendicando a guisa di prassi desuende l'ozio, l'inerzia, e l'indolenza, disincentiverai l'ipotrofìa intellettuale, seminando negli animi la bramosìa della più creativa delle industriosità; e poiché le liti sorgono laddove non ci si sa esprimere ovvero comportare, estirperai anche l'odio, le violenze, le discriminazioni, le ingiustizie e le iniquità, che son tutti paradigmi sintomatici dell'ignoranza."

L’ignoranza conduce al non sapersi esprimere ovvero al non saper tenere la condotta più opportuna: lo scontro fra chi non si sa esprimere per comunicare all’altro di non aver tenuto un comportamento corretto, ed il travisare le parole di chi non è fornito di un dizionario o di un lessico sufficienti, conduce senz’altro all’incomprensione ed alla lite.
Siffatti episodi ogni giorno solcano la nostra attenzione.

PENSIERO N°29
"In qual foggia meglio puòsi nella temperie della società perfezionar amalgama, se non apprestando la più capillar epurazione della propria etica? Con certezza accogliendo inoltre per ciò ogni suggerimento, e non poter proceder oltre se non tenendo quanto udito in debita considerazione."

Il magistrato Giovanni Falcone, assolutamente cosciente della via che stava coraggiosamente percorrendo nella sua personale lotta alla mafia, ebbe la lucidità di condividere con tutti noi la sua visione di “morale”, ciò che in questo libello è etichettata prima come “traguardo” o “procedere etico”, poi come “deontica umana”, poi ancora come “orizzonte percepibile della morale di vita”, e così via.
Il suo lascito intellettuale è quanto segue: “Un uomo fa quello che è suo dovere fare, quali che siano le conseguenze personali, quali che siano gli ostacoli, i pericoli o le pressioni. Questa è la base di tutta la moralità umana.”
Se un orientamento a questo scritto vuolsi individuare non puòsi eludere la matrice eticizzante, che a leit-motiv irrora l’intera trama del testo. Eticità che in connubio con i pensieri positivisti e convenzionalisti del secondo capitolo non posson che generare una cornice a questo libretto che si palesa, e non può esser altrimenti, come di positivismo etico.
Per i discorsi sul positivismo si rimanda alla sua corretta sede; per quanto concerne il vento eticizzante, non puòsi che riferire al dovere intrinseco della natura umana di comunicare al prossimo, e condividere con lui, il sapere già acquisito, e più l’amore per il sapere, al fine di ridurre al minimo l’esternalità negative dovute alla sua assenza.
L’ignoranza s’estrinseca (anche, ma non solo) nel non sapersi esprimere o nel non saper tenere una condotta idonea alla pacifica coesistenza. L’emenda perfezionantesi con la comunicazione dell’amore per la conoscenza, colma siffatte lacune e preclude tali difetti, corroborando anche l’auspicio della pace e dell’obiettivo bene comune. E’ proprio Habermas[15] che afferma che il bene comune coincide con la solidarietà verso l’estraneo. Ed a mio avviso siffatta solidarietà è maturabile solo a seguito di un iter di correzione che coincide con il filosofare.
La mia filosofia, ravvisantesi fra le righe di questo scarno e minuto libello, è quella inedita del Coesistenzialismo (esistenzialismo condiviso, esistenzialismo di ciascuno legato l’un l’altro, esistenzialismo concepito uti universi e non già uti singuli): la capacità di amplificare il proprio quoziente empatico affinché facendosi carico delle altrui esigenze li si comprenda, li si aiuti, non potendo vivere se non con la consapevolezza di vivere con “gli altri”, per cui dovendo finalizzare la propria attività verso “gli altri” per vivere felici; comprendere e far comprendere che solo questa è l’unica via: il miglioramento della coesistenza con la reciproca compassione.
Si vive insieme e non da soli.

PENSIERO N°30
"E se razionale palesasi che il gaudio risiede non già nella agognata captazione del bramato o nella clandestina ablazione, ma - in vero - nel sincero probo amare il pacificamente dato, quale caducanda ostatività manifestasi nel non esulare improcrastinabilmente ogni ottemperabilità del Coesistenzialismo?

PENSIERO N°31
“E’ davvero lieve gravame quello dell’umanità, d’adempiere al suo onere di Conoscenza: anche il più parvo frammento di scibile si manifesta ad ogni modo superiore di quell’insipido nulla; e mentre a questa responsabilità - riverberantesi nella coscienza - non puòsi eludere a guisa pilatesca, il dolce disimpegno di quella caratterizza di irripetibili connotazioni quell’universo di splendide diversità e qualità che è l’uomo.”

PENSIERO N°32
“Gli incombenti dell’esistenza si concretano nel “quantum facitur”, se risolverli può esclusivamente suggerircelo la Scienza innalzandosi ad “an facitur”, come risolverli è chiamata ad indicarcelo solo l’Arte consacrandosi a “quomodo facitur”. Per sciogliere i problemi che l’umanità conosce ci è data la Conoscenza, spetta a noi saperne far miglior uso.”

PENSIERO N°33
"La meritorietà della discenza oltremodo s'estrinseca, e non può non anche palesarsene opera migliore, nell'annichilimento dei cardini della coassiale suggestione alle proiezioni d'ignoranza, che ad esizial guisa l'uomo desensibilizzano."

Da qui si intravedono quegli embrioni di sofiocrazia, sciogliendo ora una riserva effettuata supra, che hanno investito il Manifesto omonimo ed il cui suffragio teorico è dato dai seguenti pensieri, i quali estendono poi anche la loro portata all’illustrazione delle diseconomie cagionate dall’assenza di conoscenza: quindi come analizzato in altra sedes materiӕ non solo con riferimento (e non già all’alta cultura) alla cultura generale, ma anche alla alfabetizzazione.
Pur essendo questo un panphlet che succede cronologicamente al Manifesto, dal punto di vista logico in verità non può che precederlo. Questo prequel si compone non dei soli seguenti pensieri, ma di tutti quelli che hanno ispirato l’intero libello.
L’intento che vuolsi raggiungere è quello di palesare una coerenza nella esposizione del pensiero, tanto che sia quello teorico o che sia politico.

PENSIERO N°34
"Il terrore e l'angoscia d'esser derisi per la propria dolosa ignoranza su uno o più argomenti, porta naturalmente gl'individui a dichiararsi odianti e repellenti gli stessi argomenti in questione. Alcuni esempi: anarchici, apartitici, apolitici, antiegalitari, antidemocratici, razzisti, xenofobi, anticlericali, blasfemi, atei, etc. Il mondo è uno: sradicatevi dal nocivo relativismo”.

PENSIERO N°35
"Basterebbe null'altro che fugare coraggiosamente quelle abominevoli ed esecrande nolontà di annichilire le entropie etiche e sociali, nonché precludere quelle caducazioni psichiche della obsolescienza mentale per vincere ogni volta con la ragionevolezza le ignoranze prodromiche alla nientificazioni dell'eunomìa."

A mio avviso l’odio di qualsivoglia tipologia è un postulato paradigmatico dell’ignoranza: c’è odio dove non c’è il lume e l’umiltà di porsi nelle condizioni di accettare l’esistenza della diversità e del suffragio di essa.
Il conflitto, lo scontro, l’insensibilità, l’emarginazione, la discriminazione, sono tutte le diverse facce dell’assenza di conoscenza, ma è pur vero che l’assenza di queste facce non è già per se stessa sufficiente per aversi la pacificazione o la sensibilizzazione, o l’inclusione, o l’eguaglianza. A tal riguardo Helmut Kohl ebbe modo di affermare che “la pace deve essere ben più dell’assenza di guerra”: parole che si commentano da sole.
Ben si comprendere ora perché la missione del filosofo palesasi come infinito streben, poiché infinita è al mondo l’ignoranza da combattere. Albert Einstein non esitò ad affermare che due cose sono infinite a suo avviso: l’universo e la stupidità umana. Ma  sulla prima affermò anche che avesse ancora dei dubbi.

PENSIERO N°36
"L'ignoranza è un costo che la società non può più permettersi!: l'internalizzazione delle negative esternalità ad essa legata non è una soluzione onesta.
E' necessario un intervento paternalistico d'estirpazione sofiocratica.
Non basta l'istruzione obbligatoria. Deve essere coercitiva. Dev'essere cogente,
condicio sine qua non per le Libertà. La missione egalitativa sostanziale non deve lasciare spazio ad eccezioni. La voce della conoscenza dev'essere unanime, dev'essere di tutti."

PENSIERO N°37
"Il sistema in cui viviamo non è davvero democrazia fintantoché chi amministra il potere non dispone i mezzi per poter conoscere, fra le altre cose di economia e di diritto, di filosofia e di storia, cosa è un "sistema" e cosa è la "democrazia", discernendo le differenze e le distinzioni, la luce dall'oscurità.
Ma chi amministra il potere non potrà mai dispiegare questa disposizione fintantoché questo non sia stato eletto da chi è consapevole di questa esigenza, votando un programma politico, persuasivo, condivisibile, intellegibile ed a ciò predisposto.
Ma un elettorato attivo non potrà mai compiere questa elezione intelligente, questa scelta meditata, questa valutazione politica, fintantoché non vi sia qualcuno che innesti negli intelletti degli uomini questa visione, questa idea, questa esigenza.
E se non c'è questo "filosofo" che insegna, o non sia accolto il suo appello d'innesto di questa luce, nessuno ne comprenderà l'esigenza, nessuna scelta intelligente verrà compiuta, nessun governante sarà premurato da questa necessità di educazione, nessun sistema infonderà le basi della conoscenza."

“Che epoca terribile quella in cui degli idioti governano dei ciechi” disse William Shakespeare, sintetizzando più di quanto io abbia potuto fare il concetto di Sofiocrazia con riguardo tanto all’elettorato passivo quanto a quello attivo, per la quale digressione ed esposizione si rimanda interamente alla lettera del “Manifesto Sofiocratico”.
E già in quella sede, e precisamente nel paragrafo rubricato “Maior aut Sanior pars?” si ebbe modo di riportare le lucide parole di Winston Churchill, secondo cui la democrazia è il peggior sistema di governo, benché a suo avviso non ne fosse ancora stato inventato uno migliore.
Ma chi ha innalzato questo concetto più di tutti secondo una logica ermeneusi è stato Blaise Pascal: “Democrazia: non essendosi potuto fare in modo che quel che è giusto fosse forte, si è fatto in modo che quel che è forte fosse giusto.”
Quanti altri aforismi e pensieri, quante altre idee, massime e teorie ci sarebbero a suffragio di quell’eunomìa agognata. Ma non è questa la sede per occupar altro spazio a siffatte logiche ed ispirazioni politiche.


PENSIERO N°38
"L'unica apologetica esegesi d'uopo ravvisantesi nelle plausibili umane eristiche consacrasi a fenomenologica epifania ad esclusiva guisa di dinamica consapevolezza e palingenesi d'autocoscienza."

PENSIERO N°39
"Allieta il credere che un uomo potrebbe esser tutto quanto ciò possa venir a conoscere durante il suo pellegrinar terreno; ma di ciò ad onta, invero ed in fin dei conti, non potendo non esserlo e non potendo esser altrimenti, l'uomo è ciò che sa."


[1] In quest’opera il “pensiero” è una massima corredata da un numero progressivo che sintetizza un principio: questa è pronunciata con riferimento ad un dato argomento con accezione positiva ovvero negativa. Come si avrà modo di comprendere meglio nel prosieguo della trattazione, questi appaiono pronunciati da uno Spirito benigno ovvero da uno Spirito maligno, o come si esprime il libretto, Dàimon positivo o Dàimon negativo.
[2] Salvatore Amato – “COAZIONE, COESISTENZA, COMPASSIONE”, pag. 155.
[3] La parità ontologica non equivale alla parità biologica o fisiologica, la parola “ontologica” deriva dal greco ὄντος, òntos (è genitivo singolare del participio presente del verbo essere) e significa semplicemente parità nell’essere e cioè che tutto è e non esiste un essere che sia più o meno essere di un altro. Significa uguaglianza. Significa riconoscersi le stesse potenzialità, proiettandole in atto e gli stessi diritti. Significa non discriminare sulla base del sesso o dell’orientamento sessuale, o dell’etnia o della religione o delle opinioni personali.
[4] La filosofia (dal greco φιλοσοφία, composto di φιλεῖν (filèin), "amare", e σοφία (sofìa), "sapienza", ossia "amore per la sapienza") è un campo di studi che si pone domande e riflette sul mondo e sull'uomo, indaga sul senso dell'essere e dell'esistenza umana e si prefigge inoltre il tentativo di studiare e definire la natura, le possibilità e i limiti della conoscenza.
[5] L'imperativo ipotetico, introdotto per la prima volta da Immanuel Kant, è un comando della ragione che, a differenza dell'imperativo categorico, sul quale si fonda la morale kantiana, si applica solo condizionatamente. Lo si può tranquillamente tradurre con onere (piuttosto che obbligo o dovere), p.es.: se vuoi… devi…
[6] Arthur Schopenhauer, L’ARTE DI OTTENERE RAGIONE, pag. 15
[7] ARISTOTELE, Dell’arte poetica, a cura di CARLO GALLAVOTTI, Fondazione Lorenzo Valla, Arnoldo Mondadori Editore, 1995, p.11.
[8] Può ravvisarsi qui con un certo margine di lucidità e chiarezza uno dei pilastri dell’orientamento sofiocratico, di cui appresso ampiamente in questo libretto.
[9] Il riferimento cade con certezza non solo verso le credenze scaramantiche e le superstizioni, ma anche verso l’esoterismo: verso chi vuol convincere di possedere le leggi metafisiche di modificazione paranormale della realtà razionale.
[10] La cui limitazione alle sole capacità cognitive od intellettuali è già stata fatta trattazione supra, e che si ribadisce a scanso di equivoci.
[11] "Non possiamo  pretendere che  le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose. La crisi è la più grande benedizione  per le persone e le nazioni, perché la crisi porta progressi. La creatività nasce dall'angoscia come il giorno nasce dalla  notte oscura. E' nella crisi che sorge l'inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi  supera sé stesso senza essere 'superato'. Chi attribuisce alla crisi i suoi fallimenti e difficoltà, violenta il suo stesso talento e dà più valore ai problemi che alle soluzioni. La vera crisi, è la crisi dell'incompetenza. L' inconveniente delle   persone e delle nazioni  è la pigrizia nel cercare soluzioni e vie di uscita. Senza crisi non ci sono sfide, senza sfide la vita è una routine, una lenta agonia. Senza crisi non c'è merito. E' nella crisi che emerge il meglio di ognuno, perché senza crisi tutti i venti sono solo lievi brezze. Parlare di crisi significa incrementarla, e tacere nella crisi è esaltare il  conformismo. Invece, lavoriamo duro. Finiamola una volta per tutte con l'unica crisi pericolosa, che  è la tragedia di non voler lottare per superarla."
[12] Dino Basili, I VIOLINI DI CHAGALL, 1991.
[13] Vauvenargues, RIFLESSIONI E MASSIME, TEA, Milano, 1989, p. 37.
[14] Naturalizzato svizzero (per sfuggire alla persecuzioni della Seconda Guerra mondiale), poi divenuto cittadino statunitense (in occasione del progetto Manhattan) . Una sua celebre frase, tratta da una lettera all’amico Carl Seeling, è stata: “Non ho particolari talenti, sono solo appassionatamente curioso”.
[15] Jürgen Habermas (Düsseldorf18 giugno 1929) è un filosofostorico e sociologo tedesco nella tradizione della "Teoria critica" della Scuola di Francoforte (vedi anche: T. W. AdornoM. HorkheimerH. MarcuseE. Fromm). Nei suoi scritti occupano una posizione centrale le tematiche epistemologiche inerenti alla fondazione delle scienze sociali reinterpretate alla luce della "svolta linguistica" della filosofia contemporanea; l'analisi delle società industriali nel capitalismo maturo; il ruolo delle istituzioni in una nuova prospettiva dialogico emancipativa in relazione alla crisi di legittimità che mina alla base le democrazie contemporanee e i meccanismi di formazione del consenso. La sua elaborazione filosofica lo ha visto sempre impegnato nella critica del metodo del conoscere oggettivamente. Questo lo ha condotto sulla via della fondazione di una nuova ragione comunicativa, che egli ritiene possa liberare l'umanità dal principio di autorità. Infatti, considera che solo il paradigma conoscitivo intersoggettivo quale elemento fondativo di una nuova ragione comunicativa va ben al di là di un astratto paradigma della soggettività, di cui peraltro sollecita l'abbandono.

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